La via di accesso negli interventi di protesi d’anca rappresenta un aspetto fondamentale ai fini del
recupero post-operatorio.
In particolare, questo comporta effetti nel breve termine in termini di:
Maggiore velocità di ripresa
Minore dolore
Minori complicanze
L’artrosi è tra le più diffuse patologie che affliggono la popolazione.
Sia l’osso che la cartilagine sono tessuti vivi continuamente soggetti a fenomeni di usura e riparazione durante tutto l’arco della vita adulta.
Le protesi totali dell’anca rappresentano uno degli interventi di maggior successo, grazie anche a un dolore post-operatorio molto limitato.
Per tale ragione viene spesso definito “l’intervento del secolo”.
Nell’esecuzione di interventi di protesi d’anca, gli approcci posteriori tradizionali, posterolaterali e mini-posteriori, possono provocare una lesione alla banda ileotibiale e ai rotatori esterni corti.
L’Approccio Diretto Superiore, al contrario, non viola la banda ileotibiale e il quadrato del femore. Questo consente un recupero molto più veloce post-intervento, nonché tassi di lussazione inferiori.
L’Approccio Diretto Superiore, in particolare, permette di intervenire nella parte posteriore risparmiando la banda ileotibiale, il tendine dell’otturatore esterno e il muscolo quadrato del femore.
Attraverso l’utilizzo della Chirurgia Mininvasiva è possibile incidere una quantità minima di tessuto strettamente necessaria all’adeguata esposizione dell’anca e al corretto posizionamento degli impianti.
Come avviene l’intervento?
Il paziente viene posizionato in decubito laterale.
Viene quindi praticata un’incisione di circa 8/10 cm con un’inclinazione di 60° a partire dall’angolo postero-prossimale del grande trocantere.
Tengo a sottolineare che nell’esecuzione dell’intervento viene incisa solo la fascia del grande gluteo, mentre la banda iliotibiale – come detto in precedenza – è completamente risparmiata.
Una volta praticata l’incisione viene esposta la capsula posteriore dell’anca. Viene poi praticata un’artrotomia prima della lussazione dell’anca con flessione, adduzione, rotazione interna e compressione assiale.
A questo punto il collo del femore viene asportato, l’acetabolo viene alesato e i componenti della protesi vengono messi in posizione.
Una volta valutata la stabilità dell’anca, la capsula posteriore, il piriforme e i tendini dell’otturatore interno vengono ripristinati anatomicamente.
Qual è il vantaggio di questa tecnica?
L’Approccio Diretto Superiore differisce dalle tradizionali tecniche chirurgiche perché consente, prima di tutto, di preservare la banda ileotibiale, il muscolo quadrato del femore e il tendine dell’otturatore esterno. Inoltre, causa una minore lacerazione dei tessuti molli.
Ne consegue un recupero molto più veloce del paziente, il quale è in grado di tornare più agevolmente alla vita di tutti i giorni.
L’artrosi dell’anca – detta anche coxartrosi – è una patologia di natura degenerativa, cronica e progressiva che si contraddistingue per un’usura articolare che, a lungo andare, porta allo scorrimento tra la superficie della testa del femore e quella del cotile.
La principale conseguenza di questa patologia è il dolore, che generalmente ha origine dall’inguine e si irradia verso il ginocchio.
Da non trascurare è anche la difficoltà nel deambulare, per non parlare della difficoltà nell’accavallare le gambe o nel compiere gesti quotidiani molto banali, come per esempio quello di allacciarsi le scarpe.
L’artrosi dell’anca può essere suddivisa in due tipologie:
1- Artrosi primitiva: in questo caso abbiamo a che fare con una condizione patologica favorita da fattori come l’invecchiamento e la familiarità.
2- Artrosi secondaria, ossia favorita da fattori che vanno dalle patologie genetiche e metaboliche, fino ai traumi e agli stati di infiammazione articolare.
È fondamentale ricordare che, nonostante il picco di incidenza della coxartrosi si palesi tra i 75 e gli 80 anni, in sala operatoria possono entrare pazienti anche molto più giovani.
Alle situazioni in questione contribuiscono fattori come il sovrappeso, l’attività professionale svolta, il livello di familiarità.
L’artrosi dell’anca si diagnostica ricorrendo alla radiologia tradizionale, che fornisce segni inconfondibili come:
– Riduzione della rima articolare
– Sclerosi dell’osso subcondrale
– Presenza di cavità ossee note come geoidi
– Formazioni di sporgenze ossee denominate osteofiti, segno del tentativo che il nostro organismo mette in atto per ampliare la superficie articolare e contrastare il senso di instabilità
Il trattamento della coxartrosi dipende dallo stadio della patologia.
1- Quando è ancora precoce, si può procedere con un trattamento conservativo:
– Sedute di fisioterapia
– Programmi terapeutici finalizzati alla riduzione del peso nei pazienti obesi
– Somministrazione di analgesici e antinfiammatori
– Somministrazione di agenti condroprotettivi
– Infiltrazioni di acido ialuronico e cortisonici
– Infiltrazioni di PRP (plasma ricco di piastrine)
2- Quando lo stadio è invece più avanzato, bisogna fare riferimento alla terapia chirurgica.
In questo caso si può parlare di:
Artroscopia di anca:
Particolarmente utile in caso di conflitto femoro – acetabolare.
In questi frangenti, avvalendosi dell’utilizzo della telecamera, è possibile effettuare lavaggi articolari, ma anche asportare frammenti distaccati di cartilagine articolare o aspirare liquido articolare pieno di mediatori infiammatori.
Grazie a tale tecnica, è possibile apprezzare un sollievo temporaneo dal dolore, anche se è difficile prevedere i risultati.
Su pazienti altamente selezionati si può agire con tecniche di riparazione biologica quali tecniche di stimolazione del midollo osseo (abrasioni e microfratture sotto guida artroscopica) innesti osteocondrali autologhi o allologhi (prelievi di tessuto osteocondrale innestati nel difetto), innesti di condrociti in sospensione (trapianti di frammenti di cartilagine prelevati dal paziente e reimpiantati dopo opportuni trattamenti), innesti di cartilagine ingegnerizzata, tecniche di rigenerazione guidata dei tessuti con innesti di proteine organiche (collagene ecc..) e matrice minerale (idrossiapatite).
Impianto di protesi totale d’anca:
In caso di impianto di protesi all’anca, il chirurgo si muove con obiettivi che vanno dall’attenuazione del dolore, fino al recupero della funzionalità e della mobilità.
Considerato uno degli interventi più soddisfacenti sia per il paziente, sia per il chirurgo, l’impianto di protesi totale all’anca può durare molto a fronte di un impegno nella selezione del paziente e nella scelta di materiali di qualità.
Le protesi d’anca sono di diversi tipi e possono essere più o meno conservative. Quando la situazione lo consente, è consigliabile preservare il patrimonio osseo del paziente. In questo caso, l’obiettivo è quello di poter intervenire più facilmente in futuro.
Sulla scia di questo approccio sono nate protesi con steli più corti, ma anche protesi di rivestimento e impianti che garantiscono la conservazione del collo del femore.
Essenziale è comunque ricordare che le protesi mini invasive preservano solo l’osso del femore, ma non garantiscono lo stesso risultato sul versante acetabolare (anatomicamente più povero di tessuto osseo indi valido per una revisione della protesi).
Negli ultimi anni la Tecnologia Robotica in ambito medico ha compiuto enormi progressi.
Tra i principali vantaggi voglio sottolineare subito la miglior pianificazione preoperatoria.
Grazie al robot, infatti, tale fondamentale attività viene studiata e “customizzata” specificatamente sull’anatomia del singolo paziente. Questo garantisce, pertanto, il posizionamento della protesi per intervento di anca – così come per il ginocchio – con una precisione e un’accuratezza millimetrica.
Una volta rilevati i dati dalla Tac tridimensionale e uniti con le rilevazioni intraoperatorie realizzate mediante un sofisticato sistema di telecamere, il Chirurgo è in grado di eseguire una simulazione avanzata dell’operazione, calcolando prima dell’intervento vero e proprio i risultati e gli eventuali rischi.
L’essere in grado di posizionare le protesi con una precisione così assoluta consente di risparmiare tessuto osseo, nonché di realizzare un perfetto bilanciamento legamentoso.
Tutto ciò comporta notevoli vantaggi per il paziente il quale può beneficiare di un recupero post-intervento meno doloroso e più rapido, nonché un ritorno alla propria vita sportiva e lavorativa in modo molto più naturale.
Quali sono quindi i vantaggi di effettuare l’intervento con l’ausilio del robot?
– Visualizzazione dettagliata dell’anatomia del paziente
– Migliore pianificazione pre-operatoria
– Maggiore precisione nell’atto chirurgico
– Perfetto posizionamento della protesi
– Notevole risparmio dei tessuti
– Considerevole riduzione del dolore
– Riduzione dei tempi di ospedalizzazione
– Cicatrice meno vistosa
– Più veloce recupero post-operatorio
– Migliore resa della nuova articolazione
Proprio a fronte di tutti questi benefici, ho sostenuto e sviluppato un percorso di formazione finalizzato all’apprendimento di tutte quelle competenze necessarie all’utilizzo ottimale del robot
Tengo a evidenziare il fatto che con l’utilizzo di queste strumentazioni il ruolo del Medico non viene assolutamente sminuito. Al contrario, è possibile affermare che questo venga addirittura evoluto.
Il Chirurgo rimane protagonista mentre il robot gli consente di spostare maggiormente la propria attenzione sulla pianificazione e ricostruzione.
Sono infatti certo che i progressi della moderna tecnologia medica debbano essere a sostegno del chirurgo al fine di migliorarne i risultati ed il caso appena esaminato ne rappresenta un esempio molto evidente.
L’artrosi è tra le più diffuse patologie che affliggono la popolazione generale.
Sia l’osso che la cartilagine sono tessuti vivi continuamente soggetti a fenomeni di usura e riparazione durante tutto l’arco della vita adulta. Quando le sollecitazioni sono eccessive, si rompe l’equilibrio e la cartilagine si consuma.
La sua frequenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età e il picco di incidenza si stabilizza intorno ai 75/80 anni. Tuttavia, fattori costituzionali, traumatici o secondari ad altre patologie possono abbassare notevolmente l’età di esordio della malattia.
Fattori predisponenti sono l’età, il peso corporeo, lo stile di vita, l’attività fisica impegnativa, la familiarità.
Sintomatologia:
Tra i primi sintomi che vanno progressivamente a intensificarsi – oltre a dolore e fitte nella zona inguinale e lungo la coscia fino al ginocchio – si manifestano difficoltà a deambulare (andatura a piccoli passi), ad accavallare le gambe e a compiere movimenti anche banali, quali allacciarsi le scarpe.
In uno stadio più avanzato, è possibile evidenziare deformità ossee che comportano un accorciamento dell’arto colpito ed un blocco dell’articolazione. Inoltre, compaiono crosci articolari durante il movimento dell’anca.
Diagnosi:
La degenerazione della cartilagine in corso di osteoartrosi è caratterizzata da profonde alterazioni della superficie articolare che vanno dalla perdita parziale alla completa erosione del tessuto.
Nelle fasi precoci della malattia può essere utile effettuare una risonanza magnetica che mostra le alterazioni della cartilagine. Nelle fasi più avanzate, la radiologia tradizionale fornisce le informazioni migliori per lo studio della patologia.
Segni radiologici dell’artrosi sono la riduzione della rima articolare, la sclerosi dell’osso subcondrale, ovvero l’ispessimento del tessuto osseo sottostante la cartilagine, la presenza di cavità ossee denominate geodi, la formazione di sporgenze ossee dette osteofiti, come tentativo dell’organismo di ampliare la superficie articolare per opporsi alla instabilità articolare.
Terapia Chirurgica: protesi totale dell’anca
Nel caso in cui fosse necessario intervenire chirurgicamente l’obiettivo è quello di:
– Attenuare il dolore
– Recuperare la funzionalità e mobilità articolare
– Garantire la longevità dell’impianto
Gli interventi di protesi totale di anca sono destinati ad aumentare con il passare del tempo in quanto sono considerati, a tutt’oggi, uno degli interventi di chirurgia ortopedica di maggior soddisfazione per il paziente e per il chirurgo.
Circa il 90% delle protesi evidenziano una sopravvivenza a 15 anni e molti dei pazienti mantengono un risultato clinico più che soddisfacente nel tempo con un tasso di complicazioni che si verifica intorno al 1% dei casi.
Tra le complicazioni è possibile citare la mobilizzazione dell’impianto, l’instabilità, le infezioni, le fratture periprotesiche, il tromboembolismo venoso, lesioni vascolari e neurologiche.
La mobilizzazione è lo scollamento di una o più componenti protesiche (cementate e non) dal tessuto osseo che le accoglie. È un processo che si verifica dopo alcuni anni di vita dell’impianto ed è causato dalla reazione dell’organismo alla produzione di detriti dovuta alla progressiva usura dei materiali utilizzati.
Oggi, per fortuna, con la produzione di nuovi e più accurati materiali, (ceramiche, polietileni altamente reticolati con aggiunta di antiossidanti come la vit E1) il tasso di usura e, di conseguenza, di mobilizzazioni dell’impianto, si è ridotto notevolmente.
Molto raramente può avvenire la rottura di una componente protesica. I fattori che si ritiene abbiano un ruolo primario nella durata dell’impianto sono una corretta selezione del paziente, la qualità dei materiali, un corretto posizionamento della protesi.
Esistono diversi tipi di protesi, più o meno conservative. Quando possibile, conviene proteggere il patrimonio osseo, per poter reintervenire più agevolmente, in futuro. In questa ottica, nascono gli steli più corti (meno invasivi) come le protesi di rivestimento ed a conservazione del collo.
Tuttavia, le protesi mininvasive, consentono di preservare solo osso femorale (meno utile) e non sul versante acetabolare (anatomicamente più povero di tessuto osseo valido per una revisione della protesi).
L’artrosi è tra le più diffuse patologie che affliggono la popolazione.
Negli stadi più precoci il paziente può trarre beneficio dalla terapia conservativa non chirurgica come:
– Fisioterapia
– Riduzione del peso nei pazienti obesi
– Analgesici ed antinfiammatori
– Agenti condroprotettivi (integratori)
– Infiltrazioni con acido ialuronico/ cortisonici
– Infiltrazioni con plasma ricco di piastrine e fattori di crescita
Terapia chirurgica:
Negli stadi iniziali una chirurgia artroscopica di anca può avere qualche utilità, soprattutto in casi selezionati di conflitto femoro-acetabolare.
Con l’utilizzo della telecamera è possibile effettuare dei lavaggi articolari, asportare frammenti distaccati di cartilagine articolare, aspirare liquido articolare pieni di mediatori dell’infiammazione.
Con tale tecnica il paziente può aspettarsi un sollievo temporaneo dal dolore; tuttavia, i risultati sono imprevedibili.
In pazienti giovani, altamente selezionati, e con un iniziale selettivo danno della cartilagine si possono tentare degli interventi di riparazione biologica quali tecniche di stimolazione del midollo osseo (abrasioni e microfratture sotto guida artroscopica) innesti osteocondrali autologhi o allologhi (prelievi di tessuto osteocondrale innestati nel difetto), innesti di condrociti in in sospensione (trapianti di frammenti di cartilagine prelevati dal paziente e reimpiantati dopo opportuni trattamenti), innesti di cartilagine ingegnrizzata, tecniche di rigenerazione guidata dei tessuti con innesti di proteine organiche (collagene ecc..), e matrice minerale (idrossiapatite).
Protesi totale dell’anca:
Nel caso di protesi totale dell’anca l’obiettivo è quello di:
– Attenuare il dolore
– Recuperare la funzionalità e mobilità articolare
– Garantire la longevità dell’impianto
Gli interventi di protesi totale di anca sono destinati ad aumentare con il passare del tempo in quanto sono considerati, a tutt’oggi, uno degli interventi di chirurgia ortopedica di maggior soddisfazione per il paziente e per il chirurgo.
Circa il 90% delle protesi evidenziano una sopravvivenza a 15 anni e molti dei pazienti mantengono un risultato clinico più che soddisfacente nel tempo con un tasso di complicazioni che si verifica intorno al 1% dei casi.
Tra le complicazioni è possibile citare la mobilizzazione dell’impianto, l’instabilità, le infezioni, le fratture periprotesiche, il tromboembolismo venoso, lesioni vascolari e neurologiche.
La mobilizzazione è lo scollamento di una o più componenti protesiche (cementate e non) dal tessuto osseo che le accoglie. È un processo che si verifica dopo alcuni anni di vita dell’impianto ed è causato dalla reazione dell’organismo alla produzione di detriti dovuta alla progressiva usura dei materiali utilizzati.
Oggi, per fortuna, con la produzione di nuovi e più accurati materiali, (ceramiche, polietileni altamente reticolati con aggiunta di antiossidanti come la vit E1) il tasso di usura e, di conseguenza, di mobilizzazioni dell’impianto, si è ridotto notevolmente.
Molto raramente può avvenire la rottura di una componente protesica. I fattori che si ritiene abbiano un ruolo primario nella durata dell’impianto sono una corretta selezione del paziente, la qualità dei materiali, un corretto posizionamento della protesi.
Esistono diversi tipi di protesi, più o meno conservative. Quando possibile, conviene proteggere il patrimonio osseo, per poter reintervenire più agevolmente, in futuro. In questa ottica, nascono gli steli più corti (meno invasivi) come le protesi di rivestimento ed a conservazione del collo.
Tuttavia, le protesi mininvasive, consentono di preservare solo osso femorale (meno utile) e non sul versante acetabolare (anatomicamente più povero di tessuto osseo valido per una revisione della protesi).
Vie chirurgiche di accesso all’anca:
Le incisioni con cui i chirurghi si possono approcciare all’anca sono principalmente di tre tipi:
1- Approccio anteriore:
Vantaggi
– Minor danni ai muscoli maggiori: si può passare attraverso i muscoli senza distaccarli
– Minor dolore e più rapido recupero post operatorio nelle prime settimane
– Precoce mobilizzazione e deambulazione del paziente
– Minor ospedalizzazione
Svantaggi
– Di difficile esecuzione in pazienti obesi o con massa muscolare importante
– L’area chirurgica è posizionata vicino al nervo cutaneo laterale del femore (intorpidimento della coscia fino a dolore, meralgia parestesica)
– Maggior tasso di problemi di guarigione delle ferite, soprattutto in soggetti obesi
– Più difficile riprendere la stessa via nelle revisioni delle protesi
2- Approccio laterale:
Vantaggi
– Facile esecuzione
– Di facile estensione in caso di revisione
– Minor tasso di lussazioni
Svantaggi
– Distacco di muscoli maggiori (gluteo medio, piccolo gluteo)
– Insufficienza glutei (Zoppia con trendelemburg positivo)
– Ossificazioni eterotopiche
– Lesione del nervo gluteo superiore, nervo femorale
3- Approccio postero-laterale:
Vantaggi
– Facile esecuzione
– Di facile estensione in caso di revisione
– Split dei muscoli glutei senza distacco delle inserzioni ossee
Svantaggi
– Maggior tasso di dislocazioni, in mani poco esperte
– Più facile allungare l’arto operato, per ottenere maggiore stabilità
– Lesione nervo sciatico (1,3%)
Infine, ruolo fondamentale nel successo dell’intervento, spetta ad una corretta ed impegnativa riabilitazione volta al recupero del tono muscolare, del movimento e ripristino di una corretta deambulazione.
In caso di impianto di protesi all’anca, il chirurgo si muove con obiettivi che vanno dall’attenuazione del dolore, fino al recupero della funzionalità e della mobilità. Considerato uno degli interventi più soddisfacenti sia per il paziente, sia per il chirurgo, l’impianto di protesi totale all’anca può durare molto a fronte di un impegno nella selezione del paziente e nella scelta di materiali di qualità.
Le protesi d’anca sono di diversi tipi e possono essere più o meno conservative. Quando la situazione lo consente, è consigliabile preservare il patrimonio osseo del paziente. In questo caso, l’obiettivo è quello di poter intervenire più facilmente in futuro.
Sulla scia di questo approccio sono nate protesi con steli più corti, ma anche protesi di rivestimento e impianti che garantiscono la conservazione del collo del femore. Essenziale è comunque ricordare che le protesi mini invasive preservano solo l’osso del femore, ma non garantiscono lo stesso risultato sul versante acetabolare (anatomicamente più povero di tessuto osseo indi valido per una revisione della protesi).
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Le vie di accesso all’anca in sede di impianto di protesi sono tre:
- Via anteriore;
- Via laterale;
- Via postero laterale.
Via anteriore:
I vantaggi di questo approccio riguardano soprattutto:
- Minori danni ai muscoli maggiori, i quali non vengono distaccati;
- Minor dolore post operatorio;
- Recupero più rapido;
- Mobilizzazione precoce del paziente.
Esistono però anche alcuni contro. Ecco quali:
- Difficoltà di esecuzione su pazienti obesi o con massa muscolare importante;
- Area chirurgica è posizionata vicino al nervo cutaneo laterale del femore (intorpidimento della coscia fino a dolore, meralgia parestesica);
- Maggior tasso di problemi di guarigione delle ferite, soprattutto in soggetti obesi;
- Difficoltà di ripresa della medesima via in sede di revisione protesica.
Via laterale:
I principali vantaggi di questa tecnica chirurgica sono:
- Esecuzione semplice;
- Facile estensione in caso di revisione protesica;
- Minor tasso di lussazioni.
Ecco invece gli svantaggi:
- Distacco di muscoli maggiori come gluteo medio e piccolo gluteo;
- Maggior rischio di zoppia con trendelemburg positivo;
- Insorgenza di ossificazioni eterotopiche;
- Coinvolgimento del nervo gluteo superiore e del nervo femorale.
Via postero-laterale:
In questo caso i principali pro riguardano:
- Facilità di esecuzione;
- Facilità di estensione in caso di revisione dell’impianto;
- Split dei muscoli glutei senza alcun distacco delle inserzioni ossee.
Contro:
- Se il chirurgo è poco esperto, vi è un maggior tasso di dislocazioni;
- Maggior facilità di allungamento dell’arto operato, al fine di ottenere una miglior stabilità;
- Maggior rischio di lesione del nervo sciatico.
In tutte le situazioni appena descritte, ai fini di un maggior successo dell’intervento è essenziale mettere in atto una corretta e costante riabilitazione finalizzata al recupero del tono muscolare e al ripristino di una corretta deambulazione.